Quella di Luciano si potrebbe definire una poesia ginnica, ginnastica, etimologicamente: nuda, di puro movimento, che fa della lontananza una poetica dinamica dell'attuale, della contingenza, dell'urgenza.
Il suo sguardo terso mira a lontananze cruciali e cogenti: l'origine e la sparizione, il lutto e la sopravvivenza.
C'è un'acclamazione ferita nella voce. C'è un'inesausta tentazione di opporre un gesto, una fisicità, ancora e ancora, all'infinito nulla che noi siamo.
La poesia è spesso un alibi, dici poesia e tocchi (pensi di toccare) un livello a priori di comunicazione superiore, garantita dalla marca. Non è così: la poesia come prova, rischio, ricerca costante, continuo riequilibrio del peso specifico della parola è sempre qualcosa che, come la lepre delle favole, puoi continuare a inseguire, puoi anche sfiorarla. Ma proprio la corsa con cui la insegui ne segna, con il battito del tuo cuore, la necessaria velocità per non perderla di vista. E credo che Luciano abbia sempre corso e non l'abbia mai persa di vista.
Dalla prefazione di Renato Minore