
Canzoni del vagabondo
Sante De Pasquale
Prefazione di Valeria Di Felice
pp. 40 | 12x18 | 978-88-97726-13-5
«La poesia non è un modo di esprimere un'opinione. È un canto che sale da una ferita sanguinante o da labbra sorridenti.» Condivido le parole di Kahlil Gibran, soprattutto laddove la poesia è messa in relazione non tanto con il lampeggiamento d'un pensiero astratto, quanto con il riverbero sonoro di un gorgo emotivo che si fa gravido di presagi come quelli contenuti nelle Canzoni del vagabondo di Sante De Pasquale. Sono i presagi di un'ispirazione militante, consacrata nell'emblema del viaggio e del mutamento, in grado di sollecitare e trasformare la forza indagatrice dell'essenza in prassi letteraria: canzoni, dunque, che costituiscono un tassello importante di tutto quel percorso letterario che in De Pasquale trova compimento in ciò che definisce POESOFIA, quale punto di congiunzione tra linguaggio immaginifico e procedere filosofico dell'ispirazione ultima.
Il canto del vagabondo, ora preghiera morbida e delicata, ora urlo straziante e concitato che si affida all'urgenza dell'intuizione, sottrae l'insipidità e l'acredine al miope orizzonte dell'uomo comune, e le trasforma alla luce di una nobiltà di veduta che abbraccia l'invisibile e accoglie le altezze, che penetra lo scibile e asseconda il fluire del divenire. La poesia diventa una marca di confine, una zona di margine, il tracciato di rotta che fa librare le parole in un'aura di rinnovamento, la soglia liminare che riconnette la vicenda umana al proprio immaginario, in sintonia con il respiro del poeta che si porta sin dentro l'ombra delle valli e delle selve. In questo senso, i versi dell'autore sono come un mantra recitato per superare e sconfiggere i suoi demoni interni ed esterni, che ne favorisce la meditazione. È un mantra pedagogico. È una sorta di amuleto contro l'angoscia, una cantilena apotropaica per garantire salvezza, liberazione, riscatto. Alla base della poesia di Sante De Pasquale c'è una sorta di randagia instabilità interiore, un tormentoso vortice che fagocita e rimescola continuamente rabbia e rivalsa, solcando i sentieri del sogno e della follia estranei alla grande marcia del mondo. L'impronta poetica non è sigillo chiuso, amovibile, segregatore, ma vivo contrassegno dell'intimo pulsare dell'universo umano: ciò che conta è la rappresentazione di una densa corposità visiva e visionaria che reinventa, dilata e capovolge i passi erranti del poeta.
La figura del "poeta gabbiere" – suggestiva immagine che Sante De Pasquale propone nella sua seconda silloge La specularità inversa (1997) per mettere in luce la capacità del poeta di "vedere" prima degli altri, di anticipare la realtà diventando avanguardia di essa – ritorna anche in questa raccolta con una fisionomia ancora più dettagliata. Ora egli indossa le vesti di un viandante guerriero che, nel continuo peregrinare tra i meandri della sua immaginazione, procede a volte con passi lenti e scrutatori a volte con passi veloci e incitati, non scadendo mai nella fissità dell'inazione senza meta. Egli è portatore di un'assoluta attenzione alla vita che, restituendo al lettore l'immediatezza del dialogo con le creature della natura, si fa tramite di una visione integra e armonica dell'universo metaletterario, laddove ogni frattura individualistica si ricompone in una sostanziale e piena unità. [...]
Valeria Di Felice